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Un viaggio nell’archeologia alla scoperta delle Ville romane In evidenza

di Anna Mori – Il funzionario archeologo della Soprintendenza dott. Luigi Gambaro ci ha spiegato da dove nascono, perché e come erano suddivise.

Durante l’open day al cantiere archeologico di Fezzano, il Funzionario Archeologo della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Genova e la provincia della Spezia, dott. Luigi Gambaro, ci ha spiegato da dove sono nate le ville rurali romane, accompagnandoci in un viaggio nell’archeologia.

“La civiltà Romana era una civiltà urbana, il termine con cui i Romani chiamavano la loro città era ‘urbs’ da cui deriva il termine urbano. I Romani, che avevano conquistato tutto il bacino del Mediterraneo, ovunque si insediassero costruivano colonie con delle ‘imagines’, delle imitazioni, della città di Roma: c’era il foro, la piazza dove concludevano gli affari, la curia, la basilica, i templi, le terme, le palestre, i teatri, gli anfiteatri.

Ma i Romani vivevano anche al di fuori della città, dove edificarono, ad esempio, un sistema di insediamenti lungo le strade, che vennero costruite per finalità soprattutto militari. Le strade servivano infatti per portare i messaggi attraverso l’Impero, le staffette dovevano consegnarli in pochi giorni. Per questo era stato creato un sistema di ‘mansiones’, ‘mutationes’ e ‘stationes’ in piccole località rurali, dove era possibile dormire e abbeverare i cavalli: potremmo paragonare queste strutture ai moderni motel.

Tra gli insediamenti rurali annoveriamo anche le ville, il cui modello, come anche per le domus urbane, nacque dall’esempio delle regge ellenistiche. I Greci nell’età classica del VI-V secolo erano morigerati, vivevano in case non lussuose. Dopo la caduta dell’impero di Alessandro Magno, dal III secolo a.C. ci fu un grande periodo di dissoluzione, i signori iniziarono a costruire delle vere e proprie regge. La domus romana, pur avendo preso elementi dal mondo etrusco e italico, era un’imitazione delle residenze ellenistiche.

La casa era molto standardizzata: aveva le ‘fauces’, l’ingresso, quindi un atrio che serviva per la conserva dell’acqua dove c’era un ‘impluvium’, e poi  un ‘peristilio’, una specie di grande cortile porticato che derivava dall’’hortus’ delle case più antiche e povere, con giochi d’acqua, marmi, statue, viali alberati, ad imitazione dei ‘paradeisos’, i grandi parchi ellenistici dove i sovrani andavano a caccia.

Il modello della domus urbana signorile si ripropose anche nella villa rurale: in età romana andavano in villa i signori e chi se lo poteva permettere, spesso anche solo per distendersi. All’epoca non c’era la vita frenetica di oggi, però i Romani dedicavano una parte della loro giornata al ‘negotium’, gli affari, che svolgevano in città nel ‘tablinium’, una parte della casa dove ricevevano i clienti per attività giuridiche e commerciali.

Nel fine settimana andavano a riposarsi nelle ville, le ‘ville d’otium’, non ozio come lo intendiamo noi, ma un momento in cui si discuteva di filosofia, si assisteva a spettacoli teatrali, si conversava con gli amici, in ville che imitavano appunto in piccolo le residenze ellenistiche. Infatti c’erano giochi d’acqua, statue, e anche le diete, che erano un locale, magari affacciato sul mare, in cui il senso del bello era preponderante e dove i signori si riposavano.

Ma i Romani avevano il senso degli affari, quindi alla villa d’otium spesso si affiancava anche la villa produttiva, che era divisa in diversi settori: la ‘Pars Dominica’, da cui il termine domenica, era la zona residenziale, riservata al proprietario e alla sua famiglia dove veniva riprodotto il modello della domus urbana con mosaici, affreschi e statue; la ‘Pars Rustica’ era la zona destinata alla servitù, i lavoratori dell’azienda; la ‘Pars Fructuaria’ era destinata alla lavorazione dei prodotti. Le ville erano inserite in proprietà, i ‘fundi’ (ad esempio il nome di Fezzano sembra derivi da “Fundus Alfidianus”), dove veniva coltivato l’olivo, la vite, allevato il bestiame, e quindi c’erano delle parti destinate alla spremitura e frangitura delle olive e alla produzione del vino, prodotti che a volte venivano venduti.

Presso la Villa del Varignano, ad esempio, è possibile vedere due frantoi per la spremitura dell’olio, che i Romani chiamavano ‘torcularia’, e i grandi contenitori in terracotta, una sorta di botte, per contenere i liquidi, i ‘dolium’, di cui abbiamo trovato una parete anche a Fezzano.

La manodopera era totalmente gratuita, grazie agli schiavi, che vivevano negli ‘ergastula’, la parte della villa a loro destinata. Gli schiavi non avevano diritti, erano la forza motrice per svolgere i lavori manuali: sembra che questa sia la causa per cui i Romani non abbiano mai sviluppato la tecnologia, non ne avevano bisogno perché avevano migliaia di schiavi che facevano un lavoro che ora noi riusciamo a sostituire con altre forze.

Infine, se le ville erano marittime, c’erano anche gli approdi. In età repubblicana le ville entrarono nel demanio degli Imperatori, che si sostituirono ai signori, facendole diventare ancora più lussuose”.

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