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di Francesca Dallatana - Un nastro di asfalto sotto le gomme. Proiettato su un grande schermo a tutta velocità. Con gli effetti speciali della tridimensione. Musica spregiudicata.

La vita nuova è cominciata quattordici anni prima. Da allora si sono alternate quattro fabbriche. Al massimo due o tre anni in ciascuna. Vattene per primo. Questa è la regola imparata quando il mondo si è capovolto. Ha intuito la miseria prima che producesse un grande crac nella terra desolata.
La terra desolata è il luogo da dove tutti se ne vanno. Alla ricerca di denaro facile. Per chi ha la terra sotto le unghie, il lavoro all’occidente dona denaro facile.
La terra desolata è il luogo oscuro, dove dannatamente si ritorna.
E’ un lavoratore forte. Uno tenace. La vita da questa parte del mondo gli ha preso la mano. I ritmi veloci, le vetrine sociali, la competizione per gli oggetti posseduti. Vuole sentirsi alla pari. Il consumo ti spara alle stelle. Amplifica per eccesso quello che si è. Fa sentire importanti. Perché rende uguali. Nel suo Paese tutti erano uguali per via dell’istruzione garantita: lui, silvicoltore di formazione, sa montare e smontare un motore e ripararlo. In mezzo a una terra abbandonata se la cava. Con un coltello uccide, ripara un oggetto, si difende. Oppure attacca. La competenza circolare, intorno a fatti e cose umane, gli ha permesso di lavorare subito all’ovest.
Qui ha potere d’acquisto. Quando i soldi finiscono, le banche e le finanziarie li prestano se ci sono garanzie. Lui sa lavorare. Questa è la sua forza.

Da qualche tempo l’apparire è diventata una dipendenza. Ha dimenticato le coltivazioni e i tempi lunghi del lavoro di cura in campagna. Gli sembrava di non appartenere al mondo. Che il mondo si fosse dimenticato di lui. Era ancora dall’altra parte, dove mani e scarpe si inzaccherano di terra. Era giovane. E non guardava lontano. Credeva fosse infinito il tempo a disposizione. Come l’alternarsi delle stagioni. All’ovest è diventato un cittadino attivo. Perché è visibile al mondo.

Se non ti vedono non vali.

Frequenta il bar del quartiere. E i locali da ballo, non per ballare ma per parcheggiare l’automobile oppure la moto nel piazzale. Per camminare con il giubbotto alla moda e i tatuaggi in vista. Mostrare la silhouette fasciata dai jeans alla moda e le spalle tornite. Sentire il guizzo tonico dei bicipiti strusciare contro la fodera della manica. Gli altri hanno acquistato soprattutto Suv di seconda mano, macchine alte. Per evitare di rompere la coppa dell’olio per le strade strattonate nella terra devastata dalla Storia, saliscendi impervi e imprevisti di asfalto. Un’auto, anzi diverse auto le ha possedute anche lui. Ora ne ha una, nuova e alta come quella degli altri lavoratori del suo Paese. Anche loro frequentano la palestra. Tutti dedicano tempo a costruire un corpo potente. A esibirlo in qualunque passerella sia possibile. Ora, qui, lui si sente al centro di se stesso.

Sfodera la moto.
La porta in giro per connazionali. Come se fosse nella terra desolata. Lui è un motociclista. Il nastro che va verso Reggio Emilia è di velluto. Pari e liscio. Ricoperto dalla patina lucida e scivolosa della pioggia.
Lui, la moto, la cavalca come un cavallo da corsa. Il corpo si confonde con il motore. Batte lo stesso tempo. Il corpo si adagia sulla sella, aderisce alla concavità morbida quasi volesse scomparire tra le braccia del manubrio.
Al mattino presto l’aria è frizzante. Solletica cervello e corpo e li fa scivolare fuori dal sonno. Vorrebbe che il suo capo lo vedesse in sella alla moto. E’ in Italia da anni. Ha sempre lavorato. Guadagna soldi. Può fare quello che vuole. Ogni volta che chiede di più, soldi ancora, se ne va altrove. Dove lo pagano meglio. Un ciclo karmico. Ogni tre anni la vita ha esigenze diverse e ha bisogno di soldi e soldi ogni mese. Da un anno è arrivato il giocattolo da diverse migliaia di euro. Una moto più potente e nuova.
Al suo vecchio capo non può dire chi sia diventato e come viva in Italia. Impossibile mostrare. Per quell’uomo faceva l’autista. Lo portava in giro senza chiedere. Il capo qualche volta gli sorrideva da sotto gli occhiali. Gli occhi non glieli ha mai visti.

Quando la Storia si è girata dall’altra parte e ha chiuso la porta in faccia alla terra desolata, alcuni si spostavano su macchine veloci. Da una parte all’altra del Paese. Sconfinavano e facevano cose, intrecciavano affari che un esperto in silvicoltura come lui mai si sarebbe permesso di pensare. Aveva lavorato per uno di loro prima di decidersi a partire. Troppo povera, la terra. Attraente la vita simulata dell’Occidente. Giocavano a fare gli americani, gli europei. Senza sapere bene che cosa stessero facendo. E che cosa davvero voglia dire essere americani: correre dentro una gabbia come un topo inquieto alla ricerca del cibo che qualcuno mostra e poi toglie. Lo pensava spesso.

All’est non si perdeva tempo a simulare la democrazia. Semplicemente non serviva. Si rifiuta ciò che non si conosce. Occhiali scuri a specchio. Le labbra ripiegate in basso. Mascella serrata. Spalle diritte e collo fiero. Si era tatuato proprio in quel periodo, quando portava in giro per le strade bucate l’uomo potente che gli aveva fatto intuire un altro mondo. Il tatuaggio racconta la storia che si porta addosso. Della quale non ci si spoglia quando si entra nel sonno. Il potere esoterico della iconografia impressa sul corpo lo accompagna per tutto il tempo di lavoro come autista per la persona importante.
Sulla grande macchina nera ci si sente protetti dalla Storia.
Sui social lui è presente. Pubblica poco ma si fa vedere. Una fotografia con la moto, un’immagine con i muscoli in evidenza. Il capo, invece, si è dileguato. Forse trattenuto in galera. Oppure eliminato.
A lui deve lo stile. L’arroganza della temerarietà l’ha vista per la prima volta dall’altra parte del tempo e del mondo. Dove ha capito di essersi stancato del ritmo monotono della terra. Chi lavora la terra rimane anonimo. Nessuno lo vede. Per il mondo non esiste. La moto, l’asfalto, la piazza con i Suv parcheggiati, i corpi oleati di superfluo donano l’appartenenza sociale e quella mediatica. La terra rallenta il tempo. Appiattisce i ricordi. Annega l’adrenalina nella stanchezza del corpo.
La velocità è da temerari. La prudenza è da vigliacchi.
Se non si osa non si vive. Si respira al ribasso, chiedendo il permesso.

Migrare è ricominciare.
Lavorare e lavorare e dormire nei ritagli di tempo della giornata. Un montatore meccanico guadagna molti soldi e lavora per molte ore. Non è un lavoro per tutti. Non è come fare il magazziniere. Impara subito a guidare un carrello chi ha confidenza con la strada. Il montaggio è un’altra cosa. E’ un gioco di logica. E’ una sequenza di azioni, la programmazione di incastri. Davanti agli occhi la carta geografica di quello che sarà: il disegno da leggere, studiare. Dal quale prendere le misure.
Effetto panning.
Adrenalina alle stelle. Luce e lenzuolate di bianco candido salutano il passaggio. Un guerriero con il collo tatuato, i capelli rasati a zero, il corpo tonico, gambe magre e atletiche, spalle prepotenti. Lo sguardo mobile e fiero. Elogio della fuga. In Italia ha trovato un attracco inatteso, a tratti inesplorato. Non si aspettava di rinascere da se stesso dopo la terra in frantumi dei primi anni duemila.
Ogni tre anni ritorna. Con un’automobile diversa. La moto la mostra qui, fuori dalla fabbrica, in Italia. Il lavoro è regolare. Ha ottenuto di più ogni volta che ha chiesto. Ma ha dovuto cambiare fabbrica, cioè: società appaltatrice. Lo stipendio, l’ultimo, era molto alto. In busta paga gli hanno messo il trattamento di fine rapporto e la tredicesima. Lui non l’ha chiesto. Lui voleva uno stipendio più alto. E il capo ha fatto così. Il sindacalista della sua categoria gli ha detto che in questo modo è come se si pagasse da solo. E che lo stipendio alto è un’illusione. Gli anticipano a rate le somme che dovrebbero pagare dopo, a cadenza regolare oppure alla fine del contratto. Semplice e disonesto. Per lui va bene. Lo stipendio gli ha permesso di acquistare la moto. La vita corre sulle gomme della moto, sul nastro di asfalto della via Emilia.
Acquaplaning.
Luci intorno e un sipario di un bianco accecante calato di colpo. Il palcoscenico è vuoto. Il corpo scatta come una molla. Le braccia si sganciano dal manubrio, le gambe si arrotolano a chiocciola. La testa si assesta in posizione fetale. Un tuffo proiettato in alto. Un gomitolo di ossa, una palla inerte sparata via.
L’asfalto si è sbrecciato. E’ ritornata la terra. La sente sotto la pelle lacerata delle braccia.
Nel lungo e bianco silenzio dell’attesa, rumori flebili e il ricordo di un tempo lento. Di una terra ruvida e ricca. Di riparazioni meccaniche curate. Di erba e di vento.
Poi ritorna la fabbrica. Il ritmo del montaggio. Le consegne da rispettare. Il denaro che non basta. Per l’affitto, per la moto, per l’automobile. Per ritornare nella terra desolata. Ma soprattutto per mostrare la ricchezza. Per dimostrare di essere andato all’ovest a fare soldi e di averli fatti.
Nel sonno ovattato dell’attesa, la terra lo travolge. Una frana gli crolla addosso. Una pesante coltre lo ricopre. Preme sul petto, sul volto, si assesta negli anfratti delle orbite oculari.
Trascorrono tre mesi di tempo prima di ritornare dall’ultima stanza della coscienza. I soldi facili, come l’apparire, ti sbattono la faccia sull’asfalto. Il corpo ha perduto la potenza. Il fervore della chimica lo ha abbandonato dentro un corpo macilento. Con il ritmo lento della terra devastata. Si ritorna da dove si arriva. Il film ha ripreso il ritmo della terra.

 

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