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Luca Erba intervista l'Ammiraglio, già Presidente del Parco nazionale delle Cinque Terre.

Ammiraglio e portavoce della Guardia Costiera ai tempi dell’esodo verso Lampedusa del 2011. Presidente del Parco Nazionale delle Cinque Terre, un incarico che lo vede legato alla nostra terra in maniera indissolubile. Vittorio Alessandro, oggi in pensione, continua ad interessarsi alle attività della Guardia Costiera non sottraendosi al dibattito sul tema migranti e su quello della situazione carceraria.


Presidente del Parco Nazionale delle Cinque Terre dal 2012 al 2017. Anni importanti e strategici per l’Ente Parco dopo il “terremoto” parcopoli. Come ricorda quel periodo?
Quella del Parco delle Cinque Terre fu per me una esperienza difficile ma anche molto intensa, sotto il profilo professionale e umano.
Da poco, l’alluvione aveva arrecato danni gravissimi a Vernazza e Monterosso, poi arrivò l’inchiesta giudiziaria. Quando arrivai come commissario, degli uffici del Parco, della sua esperienza travolgente non era rimasto quasi più nulla. Tutte le carte erano state sequestrate dalla magistratura, gli armadietti con le pratiche erano sigillati, le attività ferme, l’immagine del territorio profondamente intaccata: mi era stato, in sostanza, affidato il ruolo di liquidatore che avrebbe dovuto decretare la fine del Parco e la messa alla porta dei 120 giovani che vi lavoravano.
Feci di tutto perché non succedesse, e ricordo bene la difficile riunione in cui quei giovani della Cooperativa mi dissero: continueremo a lavorare, seppure non pagati.
Tutto si rimise così in lentamente moto, grazie alla loro fiducia ma anche alla leale solidarietà di alcuni importanti dirigenti politici, amministrativi e sindacali, di amici giornalisti. Conobbi, però, anche diffidenza e distanza da parte di molti che avevano accompagnato, negli anni precedenti, i successi del Parco: così vanno le cose umane.
Conquistai alla causa un bravissimo direttore, Patrizio Scarpellini e, con lui, l’organizzazione ebbe finalmente un’ossatura. Per la prima volta, nel 2012. Quando, in quell’anno, fui designato come presidente, nessuno si candidò come concorrente.
Poi le nuove conquiste: ritornò il turismo, si indissero le gare europee, si stabilizzarono i posti di lavoro, si ripianarono i debiti, furono pubblicati bilanci trasparenti, facemmo nuovi accordi con Trenitalia, entrai in Europarc, ridemmo forza all’agricoltura dei terrazzamenti, all’area marina protetta.
La stagione precedente, travolgente e piena di grandi errori, era ormai drammaticamente conclusa, ma il Parco restava vivo.
Una storia difficile ed emblematica che, per svariate ragioni, nessuno mi aveva ancora chiesto di raccontare.
Una ragazza che ora non c’è più, Veronica, una delle più brave fra i dipendenti del Parco, resta per me il simbolo di quella storia, della rinascita di una istituzione di cui era stata decretata la fine.


Nel suo brillante curriculum professionale emerge una costante: si è dedicato con tenacia alla gestione dei flussi migratori e alla difficile situazione sbarchi nei porti. Ammiraglio, a distanza di anni che valutazione può fare?
Gli anni delle crisi migratorie non sono finiti e la questione dei soccorsi e degli sbarchi resta ancora molto aperta. Nelle Cinque Terre sperimentammo, con la Caritas, un’iniziativa di inclusione di migranti per il ripristino dei muretti a secco, ma il tema in cui mi ero cimentato a Lampedusa e che ancora molto mi coinvolge è quello del soccorso in mare.
I governi, non solo l’attuale e non soltanto quelli italiani, pur senza ammetterlo, pensano che in mare debba (e possa) ergersi la barriera dei confini.
I costi di questa strategia, in termini di vite umane, di cultura del mare e della stessa identità delle istituzioni dedicate al soccorso, sono altissimi: molti non se ne rendono conto.
Girarsi dall’altra parte, tollerare il silenzio, adeguarsi alla banalità del male non può che portare a nuove tragedie. Bisognerebbe perciò denunciare tali omissioni in ogni occasione, non stancarsi mai di farlo.


Di recente è uscito a mezzo stampa un suo intervento, un appello molto deciso a tenere accesi i riflettori anche sulle condizioni nelle nostre carceri. Un tema molto complesso… Quale azione vede come prioritaria per intervenire?
Le statistiche sui suicidi in carcere, sui gesti di autolesionismo, sull’abuso di psicofarmaci sono allarmanti, e riguardano anche i cosiddetti centri di rimpatrio dei migranti.
Ogni tanto la situazione balza in primo piano, come per la recente impiccagione di un ragazzo gambiano a Ponte Galeria. “Voglio tornare in Africa”, aveva detto, ma il “centro per il rimpatrio” non prevedeva questa possibilità: gli lasciava soltanto quella di rimanere detenuto a tempo indeterminato.
La qualità della convivenza umana si misura soprattutto dal trattamento delle persone escluse o scartate, le più indifese. Se le trattiamo male, è segno che anche noi viviamo male.


Tra i suoi tanti progetti uno dei più recenti è rappresentato dal “Comitato per il diritto al soccorso.” Ci può dire di più?
Il Comitato per il Diritto al Soccorso mette insieme alcune persone - Luigi Manconi, Armando Spataro, Luigi Ferraioli, Vladimiro Zagrebelsky, Sandro Veronesi e pochi altri - convinte che il soccorso alle persone in pericolo non sia soltanto un dovere fra i più importanti, ma un anche un bel diritto: quello di sentirsi parte di una comunità solidale.
Il Comitato ha fatto molto, spero che riesca a fare anche di più.


Lei fa parte di quella generazione che ha attraversato il lungo cammino per l’unificazione dell’Europa, l’abbattimento di muri e regimi. Oggi siamo tornati indietro?
Il fiorire dei nazionalismi sta togliendo ossigeno all’esperienza dell’Europa unita. Se questa non fosse nata, non con una ispirazione prevalentemente finanziaria, ma per la costruzione di una comune sensibilità nel rispetto delle differenze e delle vocazioni nazionali, forse oggi non saremmo a questo punto.
Prevalgono, invece, gli egoismi ma, nonostante ciò, sarebbe gravissimo cancellare o disperdere la forte ispirazione culturale e sociale che l’Unione Europea ha infuso in norme, comportamenti ed espressioni giudiziarie.


L’Europa sta dimostrando di vivere un momento di debolezza. Le guerre alle quali stiamo assistendo mettono in crisi l’autorevolezza delle Istituzioni? Le democrazie liberali immaginate e costruite nel secolo scorso sono entrate irreversibilmente in crisi?
Le democrazie sono in crisi, ma ritengo non ancora finita la loro stagione e l’ispirazione liberale che, insieme a quella socialista e cattolica, le hanno sostenute.
Le guerre, sempre più prossime, sono molto di più che un segnale di pericolo, sono l’esito (ancora, purtroppo, parziale) di un cedimento di valori umani che, ancor prima che gli eserciti, attraversano le società civili.
Con troppa disinvoltura si riscrivono regole, fatti, perfino il passato, e la carica di violenza che attraversa la nostra convivenza non promette affatto bene. Non siamo riusciti a fare i conti con la povertà, con la limitazione delle risorse, con il rispetto dell’ambiente e del paesaggio, cioè della nostra casa e del futuro di tutti.


Leggendo attentamente la sua biografia si potrebbe pensare che nel corso della sua vita abbia vissuto “diverse vite” dedicando sempre tempo ed energie esclusivamente agli ultimi, la sua si potrebbe definire quasi una missione. C’è ancora molto da fare?
C’è ancora moltissimo da fare e sarà sempre più difficile andare avanti, perché l’impegno più produttivo, cioè quello silenzioso e indefesso, in un mondo molto attratto dal clamore come il nostro rischia di rimanere invisibile o, addirittura, controproducente. Ugualmente, sono tanti a lavorare, molto più di quanto non appaia.
Ho tentato di fare la mia parte, senza avvertire contraddizioni tra vita civile e vita militare. A quest’ultima devo molto: mi ha consentito di dedicarmi al mare, di conoscere chi vive e lavora in mare; mi ha fatto amare la patria e le istituzioni per ciò che di più vivo esse rappresentano.
Soccorso in mare e tutela dell’ambiente mi hanno accompagnato sempre, quando indossavo la divisa e dopo, quando l’ho riposta.

 

 

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