«La messa in mora – spiega Piredda - riguarda due punti dell'attuale normativa italiana: la deresponsabilizzazione del datore di lavoro in caso di delega o subdelega; la proroga dei termini prescritti per la redazione di un documento di valutazione dei rischi per una nuova impresa o per le modifiche sostanziali apportate a un'impresa esistente.
La Commissione Europea nel suo parere motivato di infrazione pone particolare accento sull'esonero delle responsabilità del datore di lavoro in materia di salute e sicurezza, in caso di delega o subdelega. Oggi, infatti, in Italia un imprenditore può scaricare le proprie responsabilità in merito alla salute e alla sicurezza della propria attività, un fatto che, proprio nel documento della CE, va in aperto contrasto con l'attuale normativa comunitaria. Nel giudizio fatto pervenire dalla Commissione alle autorità italiane si legge che, visto che "tranne nel caso in cui sia stato commesso un reato il datore di lavoro non è personalmente responsabile, di conseguenza è probabile che abbia poco interesse a porre in atto misure in materia di salute e sicurezza".
Con la messa in mora, la Commissione Europea impone allo Stato italiano, senza se e senza ma, di modificare il Testo unico sulla sicurezza (dlgs 81/08), cancellando da questo testo la "salva manager". Non sono servite le decine di pagine inviate dal governo italiano alla CE a far chiudere la procedura di infrazione 2010/4227 aperta due anni fa.
Il messaggio dell'Europa è chiaro: l'Italia non è a norma con quanto stabilito dalle disposizioni quadro sul tema della sicurezza sul lavoro. Un esempio? Con l'attuale normativa italiana, una nuova impresa ha 90 giorni per fare la valutazione dei rischi, anche qualora essa svolga un'attività pericolosa per la salute e la sicurezza dei propri dipendenti e per l'ambiente circostante. È questa l'attenzione che in Italia si presta a chi lavora?
Purtroppo sono migliaia i casi lampanti che dimostrano quanto in Italia, per anni e fino ancora a oggi, si sia preferito chiudere un occhio sulla salute e la sicurezza pur di accondiscendere a imprenditori con pochi scrupoli. Il caso Ilva, in questi mesi, è di sicuro il più eclatante. Disastro ambientale, danni alla salute di lavoratori e ai cittadini di Taranto. Oggi, la giustizia fa il suo corso: fioccano condanne e arresti ai vertici aziendali. Ma a quale prezzo? L'effetto domino della chiusura dello stabilimento pugliese sull'economia italiana genera danni incalcolabili. In primo luogo sull'occupazione con 11mila dipendenti del solo stabilimento di Taranto che rimarrebbero a casa da un giorno all'altro. Poi all'industria a tutti i livelli: dalle piccole fino alle grandi imprese che si troverebbero costrette a fare i conti con l'inevitabile aumento del prezzo dell'acciaio, indispensabile per attività in quasi tutti i settori. Infine, togliere all'Italia la produzione dell'acciaio sarebbe un'autentica batosta per l'export.
Anche a Genova, dove sette anni fa era stato sottoscritto l'Accordo di programma che metteva fine alla produzione a caldo a tutela della salute dei lavoratori e del quartiere di Cornigliano, ci sono 1.760 posti di lavoro a rischio. Nel capoluogo ligure è scattata ieri la protesta degli operai dell'Ilva che, nel pomeriggio, hanno occupato lo stabilimento di Cornigliano, riuniti in assemblea permanente fino a giovedì.
Ancora una volta quindi i lavoratori sono in prima linea per difendere il proprio posto e rivendicare il binomio salute e lavoro che la politica, per troppi anni, ha preferito ignorare.
Cogliere, in tempi brevi, il monito della Commissione Europea sul tema della sicurezza sul lavoro sarebbe un primo passo concreto e necessario, che eviterebbe almeno parte degli errori commessi nel passato, di cui oggi il nostro Paese paga un conto salatissimo».