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Geninazzi ritira il "Premio Narducci": "L'inviato speciale il mestiere più bello del mondo"

"Luigi Geninazzi è l'immagine di un giornalismo che sta dalla parte della gente, non per compiacerla, ma per farle conoscere la verità". Così il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, ha commentato a Lerici l'assegnazione del premio «Narducci».

E Geninazzi, intervistato da Rosario Carello, volto di «A Sua immagine», ha raccontato tutto il fascino del «mestiere più bello del mondo», l'inviato speciale. Il suo curriculum dice Kosovo 1999, Afghanistan 2001, Georgia 2008 e tanti altri eventi che hanno segnato la storia recente. «Ma l'esperienza più bella è stata la Polonia degli anni Ottanta. Perché in quegli anni di rivoluzione non è stato rotto neanche un vetro. Milioni di persone si liberavano da un regime, in varie nazioni, senza tirare un sasso». «La prima volta arrivai a Danzica nel 1981, col terrore dei carri armati. Trovai una festa di popolo. Stetti con gli operai dei cantieri per tutti quei diciotto giorni al termine dei quali per la prima volta fu riconosciuto un sindacato libero nel regime comunista». Quell'esperienza finì col golpe di Jaruzelski. Tutti, anche in Polonia, pensarono che la libertà fosse persa definitivamente. «Tutti tranne uno: Giovanni Paolo II». Nel 1989 cade il muro di Berlino. Il fatto è inaspettato, specie in Occidente: «fu l'esito di una lotta tenace durata decenni. Spettacolo emozionante! Da Giovanni Paolo II partì la cultura che poteva affrontare l'impresa. Di ritorno dalla visita in Messico nel 1979, in un clima anticlericale che lo aveva tenuto sotto assedio, disse: "Non guardo agli Stati ma ai popoli e alle nazioni". Solidarnosc condusse una rivoluzione non sociale o nazionale, ma etica. Di fronte a una situazione di ingiustizia e di violenza, sei costretto a "non avere paura"». «Dalla voce dei dimostranti ho visto la libertà interiore, che non permette di tenersi fuori dalle rivendicazioni, di avere paura. Però, senza odio per l'avversario. Un intellettuale laico polacco ha parlato di "rivoluzione non contro qualcuno ma per il bene di tutti". Questo spiega la sua durata nel tempo. E il coinvolgimento di tutti i Paesi dell'Est». «La rivoluzione del popolo, estranea a riferimenti ideologici, nasce dai valori del popolo; non si riferisce a dottrine ma a persone che colpiscono. Esposte fuori dai cancelli chiusi per sciopero dei cantieri di Danzica c'erano le immagini di Giovanni Paolo II e della Madonna Nera di Czestochowa. Questi erano i riferimenti, non quelli di un'ideologia». L'ultima «rivoluzione di popolo» Geninazzi l'ha vissuta in Egitto, nel 2011. «Con Mubarak c'era libertà economica, ma non politica. I social network su Internet sono stati l'elemento di aggregazione. Ma poi la gente è dovuta andare in piazza. E lì si è vista la mancanza di consistenza umana, di leader. La buona novità era che non venivano bruciate bandiere americane né israeliane. Ma i blogger erano spariti. E vennero i professionisti della politica. Prima i barbuti fratelli musulmani, poi gli ancor più temibili Salafiti, dalle lunghe barbe incolte». «Nei paesi arabi è difficile che entri la mentalità della libertà, tipica del contesto religioso occidentale. La religione cristiana è elemento che relativizza il potere. I cristiani, credendo in Dio, si rifiutano di assolutizzare un potere terreno. L'islam è religione totalitaria. Nega la libertà dell'altro e la distinzione con lo stato. E' un fattore che inceppa, anziché liberare... Il concetto di perdono manca all'islam e forse anche agli israeliani». Uno dei più grandi servizi Geninazzi l'ha fatto da Mossul, Nord Iraq, dove ogni giorno i cristiani venivano uccisi ed il vescovo Rahho era stato sequestrato ed ucciso. «Ci andai vestito da prete caldeo. Nessuno poteva garantire la mia incolumità. Il successore di Rahho, monsignor Nona, mi accolse con calore: "Interviste ne ho date a tanti ma lei è il primo giornalista al mondo a venire qui". Chiesi di andare nella chiesa dove era sepolto Rahho. Mi rispose che era troppo pericoloso». «Dobbiamo avere a cuore questa situazione. E' in gioco la nostra fede. Noi cattolici abbiamo qualcosa da dire». Consegnando a Geninazzi il premio «Narducci», l'amministratore diocesano monsignor Giorgio Rebecchi ha detto: «Avvenire ci aiuta a dare un giudizio sulla realtà. E' un giornale sanamente laico, perché difende i valori "non negoziabili". Ricordiamo la vicenda di Eluana o la legge sulla blasfemia. Il diritto alla vita o alla libertà religiosa non è un valore cattolico, ma per tutti». E nel decennio della Conferenza episcopale italiana sull'emergenza educativa, «Avvenire diventa uno strumento fondamentale non solo perché riporta la parola del Papa e dei vescovi, ma perché porta attenzione all'uomo, alla persona»

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