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Quando si parlava sprugolino: viaggio nel nostro dialetto. 4) I mille segreti dei doppi sensi del nostro dialetto e la mes-ciüa di Fregoso e Scalzo In evidenza

di Pier Giorgio Cavallini – Puntata numero quattro del nostro e prezioso viaggio dentro al dialetto spezzino, sempre sotto l’alta guida del nostro dialettologo d’eccellenza. Un approfondimento davvero professionale e ricco di mille spunti e curiosità.

Che aa Spèza la vaa ciü l'ünze che o doze tutti sanno e molti condividono, ma se il detto lo giriamo in italiano, attenendoci al mero significato numerale dell'ünze e del doze, viene fuori una contradictio in terminis, ovvero che alla Spezia varrebbe più l'undici del dodici!. Il paradosso, però, si risolve facilmente se consideriamo che ünze "undici" è omografo ed omofono di ünze "ungere", roba da XVIII dell'Inferno. L'omofonia (ed omografia) è frutto della coincidenza degli esiti del nesso consonantico latino NGE (UNGERE) e della semplificazione di ǜndeze (cfr. deze "dieci"). Perché il detto funzioni si devono soddisfare le due condizioni testé citate. Ad esempio, non funzionerà in Val di Magra, dove "ungere" e "undici" sono rispettivamente unǧrə e undže, né in genovese, perché ivi suonano onze e unze, con la "o" di onze che si legge come la "u" italiana, e la "u" di unze che si legge come la "ü" spezzina ... ahi Genovesi, uomini diversi!.

A Biassa, il cui dialetto conosco bene per aver redatto, assieme all'amico Giancarlo Natale, il Dizionario enciclopedico del dialetto di Biassa, pubblicato dalle Edizioni Cinque Terre, è attestata la seguente quartina: En piatu de menèstra/ e 'n fiascu de vin bun/ vène o Nineta/ ch'a faemu culaziun. A prima vista, un innocente invito a consumare la prima colazione, magari con alimenti non proprio "canonici". Ma basterà scrivere, anziché culaziun, cul'aziun, ed ecco che la nostra "colazione" diventerà, come per magia, "quell'azione", che immaginare quale sia lascio alla perspicacia del lettore. Per poter beneficiare di questo doppio senso occorre però che il dialetto che se ne vuole servire presenti l'esito "c" velare del nesso mediolatino CU+E,I, vale a dire chelu da (EC)CU(M) ILLUM; in spezzino abbiamo l'esito toscano e italiano que: quelo, per cui il gioco di parole non funziona. Nel caso di Biassa culaziun e cul'aziun sono omofoni ma non omografi.

Per restare in tema piccante, informatevi bene prima di chiedere a una signora delle zone di Riccò del Golfo e aree limitrofe se le piace Giuseppe: ve piasa Giusè; perché potrebbe sorgere uno sgradevole equivoco, essendo l'espressione omofona di ve piaza gi-usè, che la grafia - ma non il suono - ci aiuta a distinguere dai pennuti (anche sotto metafora). Gi- è l'articolo maschile plurale, che si pronuncia attaccato al sostantivo che lo segue, e usè "uccello" è un sostantivo invariabile (in realtà, la "e" finale di usè è lunga, per cui una leggera differenza con Giusè esiste).

Lo scioglilingua che segue, cui ha accennato Gino Ragnetti nella presentazione della prima puntata di questa rubrica, è uno dei più celebri del dialetto spezzino: Bona sea sea, la m'ha 'ito me sea s'a me de 'n pò de sea, 'sta sea, e bona sea sea, che, in traduzione, risulta essere: "Buonasera zia (la seconda zia), m'ha detto mia zia (la prima zia) se mi dai (ma il nipote dialettofono alla zia dà del voi) un po' di cera stasera, e buona sera, zia (la seconda)". Qui la coincidenza omofonica deriva dal dileguo delle -r- intervocaliche in sera e cera, dall'assibilazione della c- iniziale di *cera in s- e da quella della z- iniziale di *zea in sea, cosicché ci troviamo di fronte a ben tre see (anzi, quattro, perché le zie sono due!): la "sera", la "cera" e una duplice "zia". Se, invece, il nipote de quo avesse chiesto all'altra zia s'a me de na sèa, anziché della "cera", avrebbe chiesto una "suola" (forse gli si era bucata una scarpa!). Ma in questo caso non avremmo avuto né omografia, né omofonia, ma - in termini fonologici - una coppia minima (ovvero due parole che si differenziano solo per una lettera), mentre in stilistica parleremmo di paronomasia. In enigmistica in questi casi si parla di cambi di vocale.

Lo stesso vale per i celeberrimi mia ch'i te mio e mia miae de fae quarcò. Nel primo, il mia è un imperativo presente di seconda singolare ("guarda"), nel secondo è un verbo impersonale ("bisogna"). Quindi il primo suonerà, tradotto: "guarda che ti guardano", mentre il secondo varrà "bisogna guardare (ovvero, cercare) di fare qualcosa". A rigore, il mia ch'i te mio potrebbe anche voler dire "bisogna che ti guardino", ma l'espressione nella pratica non viene mai intesa in questo senso. "Bisogna" viene reso in spezzino in diversi modi: oltre ad un italianizzante besogna e al testé citato mia, registriamo anche enta ('nta / venta), cada e toca: (v)enta / 'nta die, (v)enta / 'nta fae; cada die, cada fae; toca die, toca fae ("bisogna dire, bisogna fare"). Mia e enta si possono costruire anche con che + congiuntivo, cada e toca solo con l'infinito (mia / enta ch'a fago "bisogna che faccia"). Se per toca non è difficile risalire all'origine dell'espressione, basterà infatti citare la forma italiana "ci tocca" + infinito, e numerose sono, anche in lingua, le attestazioni di "accade" + infinito, come questa tratta dallo Zibaldone (Zib. 59) di Leopardi: "Non ho mai provato pensiero che astragga l'animo così potentemente da tutte le cose circostanti, come l'amore, e dico in assenza dell'oggetto amato, nella cui presenza non accade dire che cosa avvenga, fuor solamente alcuna volta il gran timore che forse forse gli potrà essere paragonato.", più criptiche sono le etimologie di (v)enta e mia. Potremmo ipotizzare un uso deontico di un verbo epistemico come nei due casi precedenti, che per la prima forma potrebbe essere qualcosa come "diventa (importante/necessario) dire", ma per la seconda non saprei proprio a quale santo (pardon, verbo) votarmi.

Ma andiamo avanti in questa ridda di omofoni, omografi e coppie minime, ricordando, ad abundantiam, che le vocali "e" ed "o" con accento grave si pronunciano aperte, con accento acuto o senza accento si pronunciano chiuse.

Se dico: (1) a mèo 'nt'er mèo, vorrò segnalare che muoio (a mèo) sul molo ('nt'er mèo)", ma se affermo che (2) a mèo 'nt'er meo, allora starò comunicando che muoio (a mèo) in un mio possedimento ('nt'er meo), a meno che io non sia un'ape panacride che annuncia che sta cessando di vivere nel miele ('nt'er meo). Se, invece, dirò che (3) er meo i è er meo, starò semplicemente avvertendo di essere il proprietario del miele, e dirò che sono il proprietario del molo dicendo (4) er mèo i è er meo. Gli esempi (1) e (3) sono omofoni ed omografi, quelli (2) e (4) costituiscono una coppia minima.

Ad un mio interlocutore proprietario d'un tavolo dirò a tòa l'è a toa (letteralmente "il tavolo è il tuo": il "tavolo" - in spezzino - ha cambiato sesso) se, per esempio, lo vedrò danzarci sopra come un forsennato (come dire: "se si rompe, fatti tuoi!"). Abbiamo omografia se non scriviamo correttamente, distinguendo le vocali aperte da quelle chiuse, ma non nella pronuncia, se corretta, perché si tratta di una coppia minima. Abbiamo, invece, omografia ed omofonia, e stilisticamente una diafora, se diciamo a tòa l'è a tòa, in risposta a qualcuno che si stupiva perché il tavolo non s'è rotto quando quell'altro ci ballava sopra, a sottolinearne la solidità e la robustezza. Questa figura retorica si presta particolarmente con i nomi di persona, in bene o in male; ad esempio, se dico Rino i è Rino, posso voler evidenziare che Rino si è comportato decisamene bene in una determinata situazione (in spezzino, i se l'è levà ben), oppure ha commesso per l'ennesima volta la solita "belinata", e da lui altro non ci si può aspettare.

E attenzione a non confondere i sézoi ("ceci") con i sèzoi ("suoceri") perché, per bravi che siano questi ultimi, trovarseli dentro alla mes-ciüa potrebbe risultare indigesto.

E a proposito di mes-ciüa ecco due poesie, scritte rispettivamente da Renzo Fregoso, il migliore dei poeti dialettali spezzini del XX secolo, che il prossimo 22 gennaio compirà il giro di boa del secolo di vita, e da Maurizio Scalzo, scomparso purtroppo prematuramente diversi anni fa.

L'AVENTO DEA MES-CIÜA 'NTE NA POESIA

A paòla mes-ciüa la düa sü i lèrfi
de chi la diza, la desléngoa a léngoa
de chi la saza,
per via dee quatro ae
der vocalìssio eiüa.
L'òca de mae daa lünte la l'anasta,
ghe ven a pèle de gaina, se gh'adrissa
a ciüma e
la trincia o sezeeto,
la o lüma.
E ae, aoa, l'en sei, àote per l'àia.
Da quer miadoe, l'Avento
i sgonfia i drapi, i smèva
o gianco de lensèi ch'i scrèvo e i ciato
l'Evento.
Daré ai rè magi, a Spèza
la rèva e man, la nonsa
sézoi, fazèi e gran. (R. Fregoso)

A MES-CIÜA

Fin'aiei
i ea 'n mangiae da pòvei:
la fava da menèstra,
da pietansa e da contorno,
la costava pògo e la fava ben,
ma anchè anca i signoi
i l'han scovèrta
e i veno de sea
a strǜmene
e i bevo, ciaceando di se afai.
A pensaghe ben
a mes-ciüa i è 'n piato
da lecasse i lèrfi!
La gh'è di fazèi,
di sézoi e 'n po' de gran,
peò l'è bona
co' 'n po' d'èio d'oiva,
en po' de sa e peve
e 'r pan de ca ...
E l'è bèlo mangiala
cor vin bon ... en conpagnia. (M. Scalzo)

Ma riprendiamo la nostra esplorazione degli omofoni ed omografi spezzini, precisando che alcuni di questi esempi sono riportati anche nella rubrica "Omofoni" (che riunisce senza distinzione omofoni, omografi e coppie minime) dell'Introduzione alla grammatica del dialetto spezzino di Franco Lena.

In aa (plurale ae) confluiscono gli esiti di tre diverse parole, vale a dire "ala", "alla" e "aia". Potremmo ad esempio dire: aa barbàtoa la gh'è caì n'aa 'nte l'aa, ovvero "alla farfalla è caduta un'ala nell'aia". Ricordo che la farfalla in Val di Magra è forbàtola. La parpàgioa in spezzino è la "falena", detta anche parpagion, che è anche sinonimo di ratopenüo (con diverse varianti zonali, tra cui ratopelugo), ovvero il "pipistrello", che in alcune parti della Lunigiana chiamano nòtolo.

In coa (plurale coe) confluiscono il sostantivo CAUDA > coda e la preposizione articolata "con la" > "colla" (con "o" chiusa). Ovviamente, possiamo risolvere il problema dell'omografia (ma non dell'omofonia) scrivendo co' a per la preposizione articolata. Ubaldo Mazzini ha scritto il seguente soneto coa coa (cioè un sonetto caudato, o sonettessa, letteralmente "con la coda"):

L'ADIO

Soneto coa coa
Adio letoi, o zovi o maidà,
Fanti o fantèle, san o malandà;
Adio gente, che senpre ho coionà
Ente tüti 'sti ani ch'è passà!
Adio, amighi, ch'a m'avé agiütà
Coa palanca, o con èsseve abonà,
Adio, nemighi, che sensa pietà
Ben de sprèsso a piavo a stafilà.
Adio, Paita, che forsi ho martratà,
Ma che, se pròpio Sià vè die a veità,
Sià deve a me a se celebrità!
Adio, adio! e l'ǜrtima penà
A vòi che a tüti la sia dedicà,
Mandàndove 'n salüto e ... na sassà:
Gh'è che s'arideà
Sentindo 'sta notìssia, ma chi sa
S'i è 'nzà assüto o nòstro caamà!.

In müo confluiscono gli esiti di "mulo" e "muro", e così potremmo dire: liga 'r müo ar müo, "lega il mulo al muro"; sede significa sia "sete", sia "seta", quest'ultima con il tipico metaplasmo di declinazione dalla 1a alla 3a, che ritroviamo anche in pòrte "porta", valize "valigia" etc.. Avremo, quindi, a gh'ho sede "ho sete" e na faodeta de sede "una gonna di seta"; còo significa "cavolo" e "coro", con una differenza sostanziale per quanto riguarda il mangiare: nel primo caso per deglutirlo non ci vorrà molto tempo, ma nel secondo un buon tarlo (càmoa, femminile, in spezzino) potrebbe metterci anni!. A proposito di càmoa (càmua in quel dialetto) al tempo della redazione della mia tesi di laurea a Varese Ligure e dintorni (anni Settanta) ho raccolto l'espressione tià a càmua nel senso di "corteggiare una donna", la cui origine non sono mai riuscito a spiegarmi.

Altri omofoni/omografi: bagio "latrato" e "sbadiglio"; bòcia "bottiglia" e "apprendista"; brico "luogo impervio" e "bricco"; bròca "brocca" e "spina"; camin "cammino" e "comignolo"; costo "costo" e "cespuglio"; fàossa "falsa" e "falce", di cui risparmio al lettore le etimologie, assicurandolo tuttavia che sono diverse.

Non si salvano nemmeno i verbi: in particolare, è può voler dire "egli è", ma anche "tu hai" (lü i è; te the gh'è). "Tu sei" suona in spezzino te t'èi (da non confondere con te t'ei, con la "e" chiusa, che vuol dire "tu eri"), ma si annovera qui una celeberrima eccezione, nel travestimento tutto nostro delle parole con cui si accompagna il Coro nuziale di Wagner, che in lingua nostrana recita: aomai te gh'è / e te ghe stè, mentre, in punta di grammatica, dovrebbe essere aomai te gh'èi. E possiamo citare ancóra i veno / i vèno "vengono / vogliono".

Abbiamo anche omofonie e omografie tra verbi e sostantivi, come in fasse, che vuol dire sia "farsi", sia "fasce". Così parlando dell'autarchia delle donne d'un tempo potremmo dire che i savevo fasse e fasse da loo, ma volendo evitare il problema possiamo usare la variante fàssoa per "fascia", il cui plurale suonerà fàssoe; e ancóra: arva "apri" e "anta, scuretto"; ato "atto" e "dato" (participio passato di dae "dare"); asseta "matassina" / (i s') assèta "si siede" (coppia minima). Ma si potrebbe continuare ancóra a lungo.

Un altro settore divertente, che non è certo appannaggio dello spezzino, ma è ivi molto ben rappresentato, è quello delle cosiddette "coppie minime", alcune delle quali abbiamo già esaminato di sopra, vale a dire parole che si distinguono solo per una lettera. Eccone alcune:

- coo/còo (plurale coi/còi), ovvero "con il/cavolo" che al singolare - diversamente dal plurale (pasta coi còi) - non possono trovarsi, nello spezzino classico, a contatto, perché "col cavolo" si dice cor còo e non coo còo, perché la forma coo della preposizione articolata "con" si usa davanti a parole che iniziano per "c" e "g" palatali, "d", "l", "n", "r", "s", "t", "z "(ad esempio coo dido "con il dito");

- nìssoa / nissèa "lucciola" / "nocciola"; potremmo, ad esempio dire che na nìssoa la s'è posà sorve a na nissèa "una lucciola si è posata sopra a una nocciola";

- moro / mòro "muso" / "negro". Uno dei principali poeti dialettali spezzini, Alberto Faggioni (1871-1956) nella poesia L'Ostaìa dea Cüca, scrive : Casane la 'n aeva 'n quantità, / ma 'nt'i tempi da lòta eletorale, / ne se podeva entrae ciü 'nt'o locale, / dae gran gente che gh'ea drento assetà. // Perché li s'arünava i Comitati, / che 'nvece de fae e schede per votae, / i aevo sempre 'r moro drento ai piati. / E quando i s'eo 'ngorfà ben de mangiae, / (sicome fava sponda i Candidati) / i 'ndavo tüti via sensa pagae!//. Un'espressione tipica del dialetto spezzino - e non solo di quello - era a t'o dago me o tabaco der mòro, che significa più o meno "te la faccio vedere io" o "ti concio per le feste". Il tabaco der mòro era una sorta di "trinciato forte", così chiamato per via di un giovane di colore che campeggiava sulla sua confezione, ed il fatto di associare questa varietà di tabacco ad una situazione negativa la dice lunga sulla durezza del prodotto. Per la cronaca, esiste ancor oggi una s.r.l. di diritto inglese denominata "Tabacco del moro Limited". Alcuni etimologisti suggeriscono un'affinità con l'espressione francese passer à tabac "prendere a pugni". Sempre meglio, comunque, del tabacco autoprodotto dal ciccaiolo, che andava in giro per le strade con un bastone di legno munito di una punta di ferro in una mano e un bolacheto nell'altra, infilzando cicche, che poi sgretolava per ricavarne il tabacco. Alla faccia dell'igiene!. E visto che siamo in tema di tabacco, ricorderò l'espressione trido come a macüba, a denotare qualcuno sensa na palanca. La Macuba è un tabacco aromatico da fiuto prodotto ancor oggi nell'omonima città della Martinica. Quei dea me leva, come si diceva una volta, ricorderanno senz'altro le confezioni di surrogato del caffè Bricco e Moretto (il famoso "caffè d'orzo") prodotte dalla Crastan di Pontedera, la seconda recante su di sé un sorridente negretto. Non si offendano i benpensanti, stiamo solo citando cose di un'epoca in cui il politicamente corretto ancóra non esisteva. Relativamente a moro (con o chiusa, cioè "muso") era in voga uno scherzo ai danni dei bambini, che venivano mandati alla botega con l'incarico: Vame a catae doi èti de moro pisto. Il malcapitato di turno si recava dal negoziante e chiedeva: - A me de doi èti de moro pisto?, al che il bottegaio, ben conscio di che cosa si tramava ai danni del fanteto, rispondeva prontamente: - A ne gh'en ho; il fanciullo tornava a casa mogio mogio e riferiva: - I ha 'ito ch'i ne gh'en ha; e l'adulto: - Tórnaghe e dighe ch'i te daga doi èti de moro pisto ... e s'i n'è pisto fàtelo pistae!. Altro che realtà aumentata e metaverso!;

- ase "asino" / azé "aceto" (la "z" di azé si pronuncia come la "s" sonora di ase);

- àsena "asina" / aséna "ascella";

- corpo "colpo" / còrpo "corpo";

- cüa "cura (sostantivo e verbo) / cüà "culata";

- fea "fiera" / fèa "fuori".

E chiudo questa panoramica con due famose paronomasie basate sulle allitterazioni, rispettivamente delle "s" e delle "t": a sò assè se a sa l'è assè "so assai se il sale è abbastanza" (dove assè "assai" è anche omografo ed omofono di assè "abbastanza") e a t'ho 'ito òto èti de totaneti "ti ho detto otto etti di totanetti" divenute a tutti gli effetti blasoni popolari.

Questi i link delle due puntate precedenti della nostra rubrica:

Quando si parlava sprugolino 1)
Quando si parlava sprugolino 2)
Quando si parlava sprugolino 3) 

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