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“No a Spezia solo turismo. Sì economia del mare e innovazione, ma siamo anche un golfo per poeti!” In evidenza

di Umberto Costamagna - Il futuro adesso n.1. La Gazzetta della Spezia ha deciso di aprire un dibattito partecipato sulla città che verrà.

Non vogliamo il solito confronto fatto di tanti bla bla e paroloni vuoti, buoni per ogni occasione, soprattutto per i convegni. Vogliamo chiedere alla società civile, politica ed economica della nostra città di esprimersi con concretezza sul progetto di città che dobbiamo mettere in campo, qui e ora, per i cittadini di domani.

Abbiamo pensato a interventi che si snoderanno sulla nostra testata e che ovviamente saranno aperti al contributo di tutti. Ovviamente chiederemo anche alla politica che in questo momento ha l’onere e l’onore di governare la nostra comunità.

Apre le danze Filippo Lubrano, 36 anni, in passato collaboratore intelligente di questa testata (quando ancora usciva su carta) e attualmente tante cose: ingegnere gestionale con una lunga esperienza in una grande azienda, giornalista, scrittore e anche poeta (una delle anime dei Mitilanti spezzini); esperto di mercati asiatici, consulente, start-upper, presidente del gruppo giovani di Confcommercio, appassionato di basket e di scacchi. Insomma, una persona poliedrica e dai mille interessi (è anche uno degli animatori dei tavoli de La Piazza Comune).

Domanda. Il prossimo 28 agosto saranno passati 151 anni da quando il generale e architetto Domenico Chiodo inaugurò l’Arsenale Militare della nostra città. Da quel giorno cambiò radicalmente la natura e il destino di Spezia e degli spezzini. Quella che sembrava destinata a diventare una “splendida perla sul mar”, una città turistica e a vocazione terziaria, si trasformò prima in una città militare, basata sul parastato e successivamente in una città industriale legata alla difesa.
Poi, negli anni Sessanta del secolo scorso, in maniera quasi casuale, si ricominciò piano piano a riconsiderare la natura turistica della nostra terra. Il risultato oggi? Una citta “mes-ciua” dove si mischiano panorami mozzafiato e oasi di una bellezza straordinaria agli insediamenti industriali e portuali, dove le attività cantieristiche di eccellenza hanno fatto fatica a conquistarsi un giusto spazio.
Insomma, ma che razza di città è oggi Spezia e la sua provincia?

Lubrano. Sono fortemente contrario alle città (forse anche alle vite, ma questa è un’altra storia) uni-vocazionali. Non credo che il turismo da solo possa, ma nemmeno debba, essere il motore economico di questa città: un’incidenza sana del turismo nell’economia di una città e di un Paese sta sotto al 15% del PIL generato. Sopra, ci sono fenomeni di musealizzazione, e le città diventano vetrine irreali (è l’”effetto Venezia”, per intenderci). Uno dei turismi – dei modi di viaggiare, più correttamente – che preferisco è quello industriale, perché anche le aziende raccontano una storia, che s’intreccia con la storia delle persone che le hanno costruite. Quello che conta è che ogni attività che si insedia in una città abbia un’anima. Quest’anima oggi la vedo nella cantieristica nautica, che crea valore aggiunto importante non solo in termini di ricaduta economica ma anche in occupazione qualificata, capace non solo di far rimanere i nostri giovani in città, ma di attrarne da fuori. La vedo meno nella crocieristica, forse ancor meno nella logistica, per quanto ne subisca un certo fascino, che sono attività con un rapporto tra impatto ambientale e generazione di posti di lavoro qualificati.
Spezia oggi è una città disequilibrata, insomma. E lo è perché nessuno si è preso mai davvero la briga di pensarla nel lungo periodo. Le cose che ci sono capitate, dall’Arsenale in poi, sono state tutte frutto del caso, e non di una visione. È questo il grande limite che dobbiamo superare.

D. Proviamo a immaginare il futuro adesso. Quello che vedranno i nostri figli e i nostri nipoti. Quale città gli stiamo preparando? O meglio, quale città tu pensi che valga la pena di preparare loro?

L. Grazie per questa domanda, perché è la domanda fondamentale che dovremmo porci ogni giorno, mentre la domanda che ci siamo posti ogni giorno in campagna elettorale è stata: “Ma i gabbiani stanotte avranno aperto il sacchetto dell’umido che ho lasciato fuori per il porta a porta?”.
La città che vorrei lasciare a mia figlia Olivia è una città più aperta, e più multiculturale. Vorrei che il driver di scelta di questa città per chi viene dall’estero non fosse però solo il ricongiungimento familiare dei nuclei dominicani – per quanto sia un amante di piazza Brin e della sua festa ambulante, e parecchi dei dominicani siano ottimi sparring partner nelle mie partite di basket nei campetti cittadini. Vorrei che ci fossero studenti da tutto il mondo che si trasferissero qui perché abbiamo la miglior ingegneria nautica sul Pianeta (abbiamo la fortuna di non avere grossa concorrenza sul tema), e che si fermassero qui perché esistono delle facilitazioni per loro per fare impresa, per incentivare la ricerca e la produzione di brevetti legati alla blue e circular economy.
Vorrei una città con un’identità forte, che abbia chiaro il suo Pantheon emotivo, culturale, e che avesse il coraggio di osare, non solo un “buen retiro” per la pensione.
E, certo, vorrei che in una città di mare si potesse fare il bagno, levandomi dall’imbarazzo che provo quando i miei amici “foresti” vengono qui e mi dicono: ok, ma siamo sul mare, dobbiamo per forza prendere il treno o la macchina per farci un tuffo?
È d’altronde su questi cantieri, “di visione”, che mi sto impegnando ormai da più di un anno con La Piazza Comune.
E vorrei una città che fosse di nuovo il Golfo dei Poeti, davvero. L’altro mio impegno sociale con il collettivo di poeti performativi dei Mitilanti muove in questa direzione, e ha trovato terreno fertilissimo in città, aggregando una comunità importante intorno a un argomento non certo mainstream come la poesia. Non è un caso che il nostro slogan sia proprio “è ancora un golfo per poeti”.
Ah, e poi vorrei una squadra di basket (femminile, più verosimilmente) di nuovo ai massimi livelli europei, e una di calcio in serie A, ma questi mi rendo conto che sono sogni giovanili, non così strategici: già che dobbiamo sognare, concedetemeli però.

D. Cerca di trasformare questo “sogno” ideale in un progetto concreto su cui lavorare fin da subito. Cosa c’è o cosa ci sarebbe da fare per “scaricare a terra” questa idea?

L. Il progetto su cui mi batto da più tempo è indubbiamente quello di creare un vero incubatore d’impresa, settoriale e di eccellenza dell’economia del mare. Sono passati ormai 6 anni dalla prima volta che ne ho presentato il progetto, quando ero parte dell’Organo Esecutivo di Promostudi. All’epoca fu bocciato per una lotta intestina alla politica, ma credo che i tempi siano perfettamente maturi: si tratta di mettere a sistema un’università che finalmente si sta trasferendo in centro città (un’altra battaglia lunga, che è la vittoria dell’amministrazione precedente di cui quella attuale ha solo tagliato il nastro), il “miglio blu” di aziende della cantieristica nautica, e potremmo avere un centro di eccellenza mondiale, unico nel suo genere. È un’occasione davvero troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
Se potessimo poi avere uno spazio fisico, fortemente evocativo, da far diventare la sede dei Mitilanti, credo che si potrebbe allargare ancora di più la base e fare grandi cose, anche più grandi di quelle che abbiamo già fatto (nel 2017 i Mitilanti hanno organizzato “Mitilanza”, il più grande raduno di poeti contemporanei d’Italia, ndr). Certo, serve una mano, perché la cultura non dev’essere misurata sul fatturato che produce, ma sulla qualità della narrazione che porta avanti, l’eredità che lascia su un territorio nel lungo periodo: un aspetto immateriale totalmente incalcolabile.

D. Nelle imprese, ma non solo, di fronte a un progetto si considerano “opportunità e minacce”. A tuo parere, quali sono oggi le opportunità e quali le minacce per provare a realizzare questo progetto?

L. Le opportunità sono immense: stiamo parlando di un settore, quello della nautica, dove la maggior parte della produzione è in Italia, e la domanda mondiale sempre in forte crescita. Qui sul territorio abbiamo almeno 3-4 player di statura globale, e abbiamo una cinghia di trasmissione già attivata che permette alle aziende di attingere dal serbatoio di formazione dell’università. Tutto sta nella volontà di pensare in grande, anche se si è in provincia. Chi l’ha fatto, come la startup per cui sono innovation manager e che è proprio uno spin-off del Polo Marconi, in ambito cybersecurity, è ora uno dei principali attori del suo settore in Italia e in Europa.
Come ci insegnavano all’università, nelle SWOT analysis le minacce sono tipicamente indicate sempre come esterne: ma in questo caso le vedo solo interne alla città. Solo una politica miope, se non cieca, alle urgenze lavorative e vocazionali di questo territorio può perdere questo treno. Si tratta di investire qualche denaro pubblico in un progetto che, se gestito bene, può generare un ritorno sugli investimenti con effetti moltiplicativi esponenziali.
Ribadisco: mi sembra una congiuntura eccezionale, di cui mi sorprendo ancora oggi mentre lo (ri)scrivo, che temo non durerà per sempre. Il tempo di agire è ora.

D. La politica, si dice, è l’arte del possibile. Ma è anche, come insegnava don Lorenzo Milani, il modo per “sortire insieme dai problemi comuni”. E allora che fare per cercare, qui e ora, di costruire e raggiungere quel futuro che hai immaginato per Spezia, quel futuro-bene-comune per i cittadini che verranno?

L. Il percorso che abbiamo iniziato con La Piazza Comune è partecipativo, dal basso. Dieci tavoli – o plance, come amo definirle, per accentuare il senso della flessibilità, del rimbalzo, e dello “sguardo dritto e aperto nel futuro” – che coinvolgono attori e protagonisti della città stessa, con background culturali e storie personali diversissime tra loro, che si sono unite intorno a un progetto, a una visione: quella di immaginare La Spezia nel 2030, e oltre. Non so dove porterà questo percorso, ma so che è il percorso giusto. L’approccio è quello dei sognatori, ma le sensibilità dell’associazione sono anche estremamente pragmatiche.
Io in particolare ho l’onore di coordinare – facilitare, è il termine che preferisco – la plancia che ha come oggetto la periferia. Una periferia non intesa in maniera topografica, ma come luogo della mente: lo spazio per chi vuole partecipare ai moti convettivi, la città di chi non si siede, di chi non è qui perché Spezia è un buen retiro, ma ha voglia di montare le impalcature, di progettare la nostra comunità con una visione di lungo periodo. Se qualcuno vuole unirsi alla regata in mare aperto, il reclutamento della ciurma è ancora in pieno sviluppo.

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